Sul blog di Stampaprint abbiamo parlato molto spesso di nuove tecnologie, delle scoperte quotidiane che i ricercatori portano nel mondo. Abbiamo visto cos’è la stampa in 4 dimensioni, quali sono gli utilizzi sempre più diffusi dei chatbot, cosa significa deep learning e cosa sia il machine learning, abbiamo analizzato le differenze tra realtà aumentata e realtà virtuale. Oggi però voglio proporre qualcosa di un po’ diverso, poiché viviamo in un mondo dove ci viene prospettata la possibilità non tanto remota di vivere in case intelligenti in cui tutti i nostri dispositivi funzionano connessi senza sosta per garantire qualsiasi nostra esigenza, è giusto avanzare alcune riflessioni, probabilmente già condivise, sulle direzioni che sta prendendo la tecnologia, sulle paure e, soprattutto, sulle distanze. Un buonissimo punto di partenza (e un ottimo consiglio per trascorrere la serata) per queste riflessioni è offerto dalla serie televisiva britannica Black Mirror in cui l’ansia per l’avanzamento tecnologico è attentamente distillata in episodi autoconclusivi da circa un’ora l’uno. Il pessimismo paranoico di questo programma Sci-Fi antologico non è il risultato della paura dell’altro o di panico di fronte alla prospettiva della distruzione nucleare, ma è invece modellato dal nevrotico modo in cui ciascuno diventa estraneo agli altri e perfino a sé stesso: non ci sono invasori alieni o fenomeni occulti, ciò che Black Mirror presenta è il terrore di fronte alla società e al rapporto da essa instaurato con le tecnologie non malvagie di per sé ma malvagie perché usate in modo sbagliato. Ogni episodio della serie racconta di un mondo credibile, quasi riconoscibile, e di un/a protagonista in cui è terribilmente facile immedesimarsi. La serie pone diversi interrogatavi davanti allo spettatore e lo costringe a fare i conti con la propria “morale tecnologica”, insomma gli mette davanti uno specchio, uno specchio nero, per la precisione, come lo schermo di un dispositivo elettronico spento.
Una piccola digressione, Black Mirror venne trasmessa a partire dal 2011 sul canale britannico Channel 4: la prima e la seconda stagione, di tre episodi ciascuna, andarono in onda a poco più di un anno di distanza. Il creatore di Black Mirror, e lo sceneggiatore di tutti gli episodi tranne uno (il terzo episodio della prima stagione, per essere più precisi), è Charlie Brooker, famoso comico e conduttore televisivo britannico. Come già accennato, ogni episodio di Black Mirror racconta una storia autoconclusiva, totalmente diversa e scollegata da quella precedente e da quella successiva, non c’è una trama orizzontale, ogni storia è un’esperienza a sé stante. Già dalla prima stagione la serie ricevette il plauso della critica e del pubblico, che ne hanno da subito apprezzato la solidità narrativa e la capacità di affrontare in modo innovativo e sincero temi già parecchio discussi e trattati in molte occasioni, come ad esempio le possibili degenerazioni del rapporto tra uomo e tecnologia in modo non scontato viste nei lavori di Asimov e Kubrik, solo per citare un paio di autori. Nel 2015, il servizio di streaming online Netflix ha annunciato che avrebbe prodotto due nuove stagioni della serie, di sei episodi ciascuna, tutti scritti da Brooker. La terza stagione ha debuttato lo scorso 21 ottobre nella consueta forma proposta da Netflix, ovvero gli episodi sono tutti stati resi disponibili immediatamente. In molti temevano che lo spostamento della produzione dalla Gran Bretagna agli Stati Uniti sarebbe stata deleteria per la serie che invece non ha perso lo smalto che la contraddistingue.
Si parlava prima di distanze e solitudine, il mondo creato da Brooker è infatti un luogo dove la capacità empatica è smarrita, è scomparsa o in ogni caso distorta: i personaggi non sanno guardare il mondo se non attraverso uno schermo, sono totalmente noncuranti dell’altro e del suo sentire, sono spettatori cinici e dispatici che traggono godimento da questo voyeurismo digitale. La memoria resta perennemente intatta e uguale a se stessa: le persone sono provvisti di personali microchip che conservano i ricordi e che possono riproiettarli a piacimento, come una sorta di film. Anche nella morte si può ricorrere a soluzioni tecnologiche smart: surrogati programmati per essere identici all’originale, anzi addirittura migliori. E la solitudine, tanta, tanta solitudine trascinata attraverso azioni ripetitive perpetrate in una una società paralizzata e bombardata da incessanti messaggi pubblicitari. Questi sono solo alcuni dei temi toccati nel corso degli episodi della serie e che fanno di Black Mirror un moderno romanzo distopico, un’estremizzazione del progresso tecnologico, tanto disturbante da lasciare aperte riflessioni, considerazioni e interrogativi sui mutamenti di una società, la nostra, dove il consumo della tecnologia è in continuo, costante aumento.
Le reazione suscitate sono prima di tutto viscerali ed emotive anche grazie alla scelta di concentrare ogni storia su una persona specifica, per poi seguirla nella discesa distopica verso la perdizione (in realtà c’è anche qualche lieto fine, non siamo così drammatici!), così facendo, la serie può funzionare come una sorta di precognitivo manuale d’uso tecnologico, che avverte: “se (o quando?) un giorno dovesse arrivare questo tipo di tecnologia, non comportarti come il personaggio di questo episodio!”.
Ma ciò che intriga di Black Mirror e che spinge ad un ulteriore livello di riflessione perché, sì, è una serie che invita gli spettatori a guardare con sospetto e a farsi domande sul futuro ritratto nei suoi episodi, ma al contempo, col suo essere ben scritta, ben girata e intrigante, incoraggia l’accettazione beota di questo futuro, sulle orme dei protagonisti di ogni episodio. Esatto, perché Black Mirror è di per sé una parte – anche consistente, visto gli ascolti che sta registrando – dell’industria culturale dell’epoca di YouTube e di Twitter, la stessa che viene criticata aspramente al suo interno. Lo show pone riflessioni ed interrogativi inquietanti sui mutamenti e sul controllo che il consumo della tecnologia sta operando silenziosamente sulle menti, tuttavia è il primo a prestarsi ad un vorace binge watching; permette agli spettatori di distanziarsi dalla visione quel tanto da poter dire ad alta voce “io non lo farei mai”, ma contemporaneamente lascia incerti e basiti. Una dualità intrinseca e tagliente che forse nemmeno il creatore Charlie Brooker andava cercando, eppure funziona, eccome se funziona, ed eleva Black Mirror se non ad opera d’arte certamente a punto fermo e imprescindibile della cultura contemporanea.
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