Il branding, per le aziende, è il processo di creazione di percezioni durevoli nella mente dei consumatori, è il loro marchio, la firma netta e riconoscibile dell’azienda stessa; ma si tratta di una realtà che va ben oltre i presupposti del semplice marketing, ha infatti a che fare soprattutto con la passione e con ciò che l’azienda vuole dire e trasmettere ai propri clienti per creare ciò che è fondamentale per vendere: l’affezione, perché la storia aziendale e l’esperienza da cui essa è nata ed è cresciuta sono, per gli utenti, forse più importanti dei prodotti stessi. Le tecniche di branding in un’azienda, includono l’associazione di loghi, colori distintivi, slogan, suoni musicali o canzoni, qualità insolite, mascotte, imballaggio, senza dimenticare un nome memorabile, caratteristiche comportamentali e molto altro ancora.
Rebrandizzarsi
Ma se è tanto importante, perché alcune aziende decidono di rebrandizzarsi, rischiando di compromettere un lavoro che a volte può durare anni? Facciamo un attimo di chiarezza: il rebranding innanzitutto non consiste nel cambiare nome, logo e immagine corporate di una azienda. Il rebranding consiste nel cambiare la percezione del brand da parte del cliente, creando un nuovo posizionamento strategico, e questo può includere il rinnovamento del nome e di tutti gli elementi visibili di un brand (ad esempio il payoff, il logo e gli altri elementi visivi) per sviluppare una nuova identità e posizionarsi quindi in modo differente sia nei confronti dei consumatori che degli stakeholders. Il cambiamento, più o meno radicale, può riguardare l’intera strategia di marketing, lo stile di advertising o anche solamente la comunicazione dell’azienda.
Fare un rebranding significa insomma rivitalizzare e riavviare il messaggio aziendale, la sua identità visiva, la sua proposta di valore e la sua visione. Il momento di rebrandizzarsi arriva quando si inizia a notare ad esempio che i propri prodotti o servizi di punta iniziano ad essere raggiunti dalla concorrenza, oppure quando il sito web risulta datato, non in linea con quanto si vuole esprimere e perciò sta prosciugando la credibilità dell’azienda, oppure ancora i materiali di marketing non sono adeguati, il marchio risulta trascurato e il messaggio confuso e incoerente, o, più semplicemente si ha perso il passo con l’evoluzione del mercato ed è quindi necessario recuperare il ritardo. È assolutamente necessario quando non sussistono più le condizioni di mercato e sociali su cui si basava l’idea originaria alla base di un dato prodotto o servizio, quando cioè si riscontrano motivazioni tali da allontanare un prodotto da chi effettivamente dovrà entrare in relazione con esso: il rischio concreto in questo frangente è la perdita della potenziale o, peggio, attuale clientela. Dunque il rebranding viene fatto innanzitutto con lo scopo di ottenere un aumento della considerazione del brand e di conseguenza, un (auspicato) aumento nelle vendite.
Proviamo ora a vedere alcuni famosi casi di rebranding:
L’invecchiamento del logo
Il caso più basilare di rebranding è dovuto all’invecchiamento del logo, come quanto è successo per Pepsi e Coca Cola; si tratta di aziende storiche che rinnovano ciclicamente la propria immagine o il proprio marchio per seguire le tendenze del decennio o del momento e rimanere sempre freschi nei confronti del cliente. Ogni cambiamento è accompagnato da grandi studi di professionisti perché la reputazione del marchio è enorme, in questo caso.
Anche la notissima Apple ha attraversato diverse fasi di rebranding in quanto il logo iniziale del 1976 non esprimeva per nulla il concetto per cui erano creati i prodotti, il famoso Think Different!, ovvero l’idea di differenziarsi dagli altri sfruttando le innovazioni tecnologiche. Era necessario cambiare logo.
Fusioni, Scissioni, Acquisizioni
Si tratta di un altro dei casi più comuni in cui viene messo in atto un rebranding. Nel caso di fusione tra due aziende, solitamente si sceglie di conservare parte dell’immagine di entrambe, come è accaduto nel caso della fusione tra le compagnie petrolifere Exxon e Mobil, dalla quale nel 1999 è nata la ExxonMobil. In questo caso il logo che si è andati a creare è un’unione perfetta tra le due immagini preesistenti: si è conservata la doppia x di Exxon ma si è utilizzato il carattere di Mobil.
Nel caso delle acquisizioni invece si tende spesso a considerare prioritaria l’immagine dell’azienda che ha acquistato, come nel caso di UnipolSai, nata dalla fusione di Fondiaria-Sai e di Unipol Assicurazioni, che l’ha acquistata; in questo caso il logo risultante presenta le forme caratteristiche del logo Unipol, abbandonando completamente quelle di Sai.
Brand reputation
Ovvero la reputazione dell’azienda e del suo marchio. Nel caso questo non sia positivo per una serie di mosse sbagliate di marketing, di gestione, di produzione, è necessario, per continuare a vendere, riposizionarsi sul mercato e trovare un’identità che ispiri nuova fiducia. In questo frangente è fondamentale che, al cambiamento di immagine, corrisponda anche un cambiamento dell’azienda stessa, la sola immagine, per ovvi motivi, non è sufficiente. È il caso di Philip Morris, colosso del mondo del tabacco, che nel corso degli anni ha acquistato altri marchi come Chesterfield, Diana, Marlboro e Merit. L’azienda decise di ampliare il proprio mercato (nell’enogastronomia) e, con un nome unicamente associato al mondo del tabacco, non era un’impresa semplice, perciò venne effettuato un profondo rebranding con la conseguente nascita della Altria Group, nuovo marchio che non rimanda immediatamente al mondo del tabacco.
Riposizionamento sul mercato
In alcuni casi un’azienda desidera cambiare approccio al mercato, per ampliare il proprio ventaglio di produzione oppure per diffondersi in nuovi mercati o in nuovi paesi.
Capita dunque che nel logo, nei payoff soprattutto, siano presenti elementi (specialmente i pay-off, le scritte) che limitino in questo senso l’azienda; fare rebranding diventa quindi necessario. L’esempio chiave è Starbucks che nel tempo ha eliminando completamente la scritta Starbucks Coffe dal proprio logo, per permettere all’azienda di intraprendere nuove strategie di mercato, oltre alla vendita del caffè.
Non tutte rose e fiori
Per concludere vediamo un paio di esempi dove il rebranding non si è rivelata una mossa azzeccata.
Il rebrand fallimentare per antonomasia fu quello di GAP che, qualche anno fa, a seguito di un calo di vendite, decise si cambiare lo storico, semplicissimo logo per adottarne uno ritenuto più moderno. Il cambiamento suscitò una sequela enorme di proteste tra i fan dell’azienda, nonché ulteriori cali di vendita, tali da portare la stessa a tornare sui propri passi e a riutilizzare il vecchio logo.
Un altro insuccesso, o comunque un processo di rebranding che ha fatto molto discutere è stato quello della stessa Pepsi che, nel 2009 ha optato per un rinnovamento e un ringiovanimento dell’immagine: il logo in realtà non è cambiato molto, la differenza principale è che la striscia bianca al centro si è trasformata in una sorta di un’onda. La società di marketing dietro il disegno, Arnell Group, ha detto che le onde erano in realtà sorrisi che variavano in dimensioni a seconda di quale prodotto Pepsi si stava guardando, addirittura c’è stato un leak online di un documento che spiega lo studio dietro questo cambiamento, ma il fatto che nulla di quanto si voleva esprimere viene percepito dal pubblico non cambia. Il vero scandalo è seguito quando sono trapelati i costi di questo rebranding: 1.2 miliardi di dollari, con 1 milione dedicato unicamente allo studio del logo.
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