WE è il blog che da qualche anno offre ai propri lettori la possibilità di restare aggiornati su diverse tematiche: dagli appuntamenti da non perdere nel Belpaese a pratici tips per i proprietari commerciali, fino a curiosità stagionali. WE è il blog curato da Stampaprint.net, azienda leader nella stampa online di articoli promozionali come espositori da banco, totem e buste da lettera. Stampaprint dedica poi la sezione “fuori dal coro” alle interviste ad esperti delle arti visive e creative: fotografi, travel e food blogger, esperti della moda e del beauty. Oggi è venuto a trovarci Edoardo Agresti: fotografo professionista, in particolare la sua fotografia è un reportage di viaggi e matrimoni. Edoardo collabora da molti anni con la Nikon nella realizzazione di workshop e viaggi fotografici. La sua attività di fotografo si affianca a quella di insegnante: partecipa come relatore a workshop e seminari sul reportage di matrimonio e di viaggio, sia in Italia che all’estero. Da circa dieci anni lavora al suo nuovo libro dal titolo “Estemporanea”, realizzato con soli scatti all’infrarosso, che spera di poter pubblicare il prossimo anno. Oggi Edoardo è venuto a raccontarsi ai lettori di WE.
Viaggi e fotografia: com’è nata la sua passione per la macchina fotografica?
Avevo circa 9 anni quando presi in mano la mia prima macchina fotografica e fu grazie a mio padre che, pur non essendo un professionista ma un ottimo fotoamatore, sentii che la fotografia mi stava chiamando. Grazie ai suoi insegnamenti e ai fine settimana passati insieme in camera oscura a sviluppare e stampare ho iniziato a fare i primi passi in questo mondo. Devo dire che la prima volta che vidi la luce prendere forma sulla carta fotosensibile nella bacinella di sviluppo fu come vedere un mago che fa apparire un coniglio dal cilindro: quella magia ha da allora condizionato tutta la mia vita.
La luce è, per lei, un elemento fondamentale (tanto che conclude con “buona luce” ogni post). Come se ne serve?
Non sto a ri-sottolineare l’etimologia della parola ‘fotografare’ ormai ben nota a tutti. Pero’ proprio per questo in fotografia, quella vera (come direbbe Gardin) è fondamentale la luce. Si dice e si insegna che la luce migliore è quella calda dell’alba o del tramonto. In linea di massima è vero ma ci sono delle situazioni anche in momenti diversi della giornata che hanno delle ombre interessanti. Mi piace, come dice Mc Curry, cercare la luce nel buio. La luce deve saper essere letta altrimenti non riesci a scrivere con essa. Deve essere la tua compagna e la devi conoscere per saperla usare. Deve diventare la tua complice. Ho fatto diverse mostre dove il titolo era appunto ‘complice la luce’. Barthes riassume bene l’importanza e il ruolo della luce in fotografia: “Una specie di cordone ombelicale collega il corpo della cosa fotografata al mio sguardo: benché impalpabile, la luce è qui effettivamente un nucleo carnale, una pelle che io condivido con colui o colei che è stato fotografato”.
Tra i tanti soggetti, il matrimonio è uno di quelli che preferisce. Cosa significa essere fotografi di un momento così importante? Quali tecniche e strumenti servono per realizzare un ottimo lavoro?
Non è che preferisca il matrimonio, con la mia fotografia cerco di raccontare delle storie e l’evento matrimonio è una di quelle. Mi piace raccontare la gente. Spesso il fotografo di matrimonio è considerato da qualche snob della fotografia come un professionista di serie B, come se fotografare un tale evento fosse banale e si trattasse di un ripiego rispetto ad altri settori considerati più nobili, ad esempio il fotogiornalismo o la moda. Non è così! Essere dei bravi fotografi di matrimonio è molto difficile. Fare delle foto interessanti – per dirla alla Erwitt – richiede una sensibilità molto particolare e anche delle competenze poliedriche. Il bravo fotografo di matrimonio deve saper fare bene lo “still life” per i dettagli, il reportage quando racconta la storia, il paesaggista quando ambienta la coppia, la moda quando gli viene richiesto delle foto “costruite”, deve avere delle competenze grafiche e soprattutto deve riuscire a stabilire un buon feeling con gli sposi, i genitori e gli amici. Certo in giro si vedono ancora molte foto brutte, ma lo stesso si può dire per la moda o per la fotografia documentaria. Credo che in tutti i campi ci siano bravi e cattivi professionisti. Non mi va bene e non capisco il pregiudizio negativo che si coglie in certi ambienti della fotografia “che conta”.
Talvolta vedo, anche tra noi che fotografiamo i matrimoni, un approccio superficiale al lavoro quasi non si stesse facendo una cosa importante. Ricordiamoci sempre che noi siamo quelli che costruiranno la memoria in immagini di uno dei giorni più importanti nella vita di una coppia. Spesso sono stati necessari molti mesi per organizzare tutto nei minimi dettagli, per rendere unico quel giorno. Il nostro compito è quello di raccontare, di far sì che nel rivedere le foto gli sposi possano rivivere quelle sensazioni e quelle emozioni che magari non sono riusciti a sedimentare nell’euforia convulsa della giornata. Tante volte nel salutare la coppia a fine serata mi è capitato di sentirle dire che tutto era passato così in fretta. Fare bene il fotografo di matrimonio, riuscire con stile ed eleganza a raccontare l’evento, essere originali ma eleganti, trasmettere emozioni e fissare attimi unici e irripetibili è forse una delle cose più difficili e complesse della fotografia.
Ho letto sul suo blog che ha iniziato a dedicarsi al ritratto fotografico. Perché?
Si dice che fotografando rubiamo l’anima e per certi aspetti è vero. Quando facciamo un ritratto certamente ‘prendiamo’ qualcosa da chi stiamo fotografando, ma non rubiamo. Nel ritratto credo sia fondamentale che il soggetto sappia cosa stiamo facendo. Spesso gli occhi del soggetto guardano in camera e sottolineano questa complicità con il fotografo. Quindi credo che il ritratto sia un modo per entrare in una relazione intima con la persona, diventi il suo psicologo, il suo confidente. Scopri lati del suo carattere meglio che in altre situazioni. Sempre citando Barthes che venne ritratto da Bresson: “davanti all’obiettivo io sono contemporaneamente quello che io credo di essere, quello che vorrei si creda io sia, quello che il fotografo crede io sia, e quello di cui egli si serve per far mostra della sua arte”.
Con alcuni devi vincere un certo naturale imbarazzo iniziale e sta a te riuscire a “rompere questo ghiaccio”. Halsmann negli anni sessanta faceva saltare le persone che fotografava. Io quando scattavo in pellicola mi ricordo che non montavo il rullino e scattavo la prima mezz’ora a vuoto. Sta alla vostra sensibilità trovare il modo di mettere il soggetto a suo agio, sempre che il non farlo non evidenzi aspetti della persona che forse neppure lui sapeva di avere.
Come nasce l’idea di fare un reportage di viaggio in un determinato luogo?
I miei primi viaggi erano dettati unicamente dalla curiosità di vedere cose nuove. Ovviamente questo aspetto continua ad essere presente anche oggi, il fotografo deve per sua natura essere curioso, ma non è più solo questo che mi spinge a muovermi. Da alcuni anni cerco storie da raccontare. Non mi interessa più fare il viaggio soltanto per vedere il paese, voglio “entrare” nel paese. Capire la cultura, la religione, i rapporti umani, la famiglia, il lavoro, le donne, come si svolge la vita quotidiana, i drammi, le problematiche sociali, la storia. A parte quando mi muovo in veste di insegnante nei Nikon School Travel dove per forza di cose facciamo un viaggio itinerante, quando invece sono da solo mi piace pianificare la storia da raccontare in anticipo e concentrare il mio lavoro su un solo argomento. E’ capitato di stare 15 o 20 giorni nella stessa città, come in Bangladesh dove ho raccontato la vita di una comunità di transessuali, oppure in Armenia tra dei senzatetto in una fabbrica dismessa, oppure tra i tossici di crack a San Paolo in Brasile. Talvolta per me non è sufficiente un solo viaggio, ma ritorno per continuare a raccontare aspetti diversi che non ho avuto il tempo di fermare la prima volta.
Sto anche lavorando su alcuni progetti a lungo termine che spero di finire prossimamente e di farne dei libri. Uno sul tè, un altro sui 4 Kumbh Mela indiani e un lavoro utilizzando l’infrarosso sul lavoro e l’ambiente.
Qual è uno dei reportage di cui si sente più orgoglioso?
Orgoglioso è una parola troppo grossa. E’ come chiedere a un padre quale figlio preferisca. Ogni lavoro, se lo ritieni ben fatto, ha degli aspetti di cui andare fiero. Devo dire, in generale, che sento di aver fatto bene il fotografo quando i miei racconti danno voce a storie e a persone che altrimenti resterebbero nell’anonimato. Mi riferisco in particolare al lavoro sui senzatetto brasiliani, ai trans bengalesi, ai rom serbi. Ma sento anche di aver fatto bene il mio lavoro quando una giovane coppia di sposi si emoziona, piange e non smette di ringraziarmi, nel momento in cui viene a ritirare le foto del proprio matrimonio. La mia fotografia è lo specchio della mia vita, il riflesso del mio io più intimo e nascosto. La mia fotografia è il vero Edoardo senza i filtri e le maschere che il quotidiano ti costringe a vestire. Quindi quando le mie fotografie toccano il cuore mi fanno capire che forse c’è qualcosa di bello anche dentro di me.
Lascia un commento