Quando ero bambino, non saprei dire esattamente in quale occasione, mi fu regalato un libro di Isaac Asimov che si intitolava “Nostalgia del futuro”. Non credo di averlo mai letto, anzi ne dubito fortemente, considerato il genere, ma di sicuro devo averlo sfogliato più di una volta. L’unica cosa che ricordo di quel libro, a parte il titolo, è una delle illustrazioni che lo accompagnavano: veniva ritratta una classe dell’anno Duemila, e ogni studente era attaccato a un apparecchio che in modo meccanico gli infondeva tutta la conoscenza di cui avrebbe avuto bisogno nella sua vita (o quantomeno nel suo iter alle scuole elementari, ecco). Il motivo per cui quell’immagine mi restò impressa è evidentemente classificabile sotto la voce “invidia”, ma anche un po’ di risentimento, perché il nuovo millennio era ormai vicino e di scorciatoie a livello di studio nemmeno una pallida ombra all’orizzonte.
L’illustrazione mi è tornata subito alla mente molti anni più tardi, quando ho scoperto che esiste una corrente artistica tutt’altro che in declino denominata retrofuturismo, nella quale il futuro che non è mai esistito ma di pari passo con il passato che provava nostalgia per l’avvenire. Ok, forse sono andato troppo in fretta: fermiamoci un attimo e facciamo un po’ di chiarezza.
Alle radici del retrofuturismo
Prevedere l’avvenire è un gioco al quale la specie umana si è probabilmente prestata fin dalla sua nascita, fallendo sempre e volentieri (non fosse così, il mondo non sarebbe lo scatafascio che è oggi. Forse). In ogni caso, la curiosità verso le scoperte del futuro, sorella del fascino per l’ignoto, ha sempre attratto i filosofi, gli scrittori (si pensi a “Il Mondo Nuovo” di Aldous Huxley, 1932), i poeti, i pittori, i registi (il capolavoro “Metropolis” di Fritz Lang, 1927, da cui è presa l’immagine qui sopra)… e i disegnatori. Tra la seconda metà dell’Ottocento e la prima metà del Novecento, in particolare, l’avvento dell’era industriale e le sempre più rapide evoluzioni tecnologiche hanno affascinato gli artisti, permettendo loro di immaginarsi scenari futuri sempre più affascinanti.
Quanti tra questi scenari sono poi effettivamente diventati realtà? Una percentuale molto, molto piccola. Ebbene, il retrofuturismo si ispira agli scenari mai divenuti “reali” e ne perpetua l’immaginario. Non solo a livello artistico, sugli schermi dei computer o sulle pagine di riviste di fumetti o grafica, ma anche nel mondo in cui viviamo: ad esempio nell’architettura. Magari con accenti ironici, s’intende, perché con il senno di poi è sempre facile sorridere delle profezie mai avverate. In ogni caso, il concetto rimane lo stesso: quello di un futuro visto dal passato e di un passato mai realizzato nel futuro.
Alla ricerca del futuro perduto
In una serie di venticinque vignette pubblicate tra il 1899 e il 1910, il celebre illustratore francese Villemard giocava a prevedere un futuro che non avrebbe mai vissuto: l’anno 2000. I disegni rappresentano un improbabile mix di passatismo e avanguardia, cosicché i pompieri volano su bizzarre ali che sembrano uscite da certi prototipi di Leonardo Da Vinci e nel frattempo i vigili urbani dirigono il traffico restandosene seduti a bordo di comodi aerei monoposto. Anche i giocatori sono sospesi nell’atmosfera grazie agli speciali zaini che indossano, mentre un cavallo viene mostrato al pubblico come se fosse qualcosa di eccezionale, il retaggio di un’epoca ormai lontana e dimenticata. Certo, le intuizioni di Villemard hanno ben poco a che vedere con una effettiva applicazione nell’avveniristico mondo del terzo millennio, ovvero nel presente che viviamo. Tuttavia, dicono molto a proposito dell’idea che tra la fine dell’Ottocento e l’inizio dell’Ottocento ci si era fatti del futuro: un’era nella quale tutto sarebbe stato possibile, ogni cosa sarebbe stata a portata di mano, ogni limite abbattuto. Certo, Villemard faceva il suo lavoro: quello di illustratore, appunto, senza necessità di porsi domande sull’effettiva applicazione dei suoi modelli in un ipotetico domani.
L’architettura, viceversa, si muoveva sugli stessi binari, ma provava sul serio a ipotizzare le strutture di un futuro non troppo lontano. Le due edizioni di Futurama, la grande mostra organizzata a New York da General Motors nel 1939 e poi nel 1964, presentavano dei modelli “possibili” di città tra la fine del Novecento e la metà dei Duemila. Sempre in quegli anni, precisamente nel 1960, Walt Disney in persona ipotizzava una città del futuro denominata Epcot, acronimo di Experimental Prototype Community Of Tomorrow. Non se ne fece più nulla, anche a causa della morte dell’inventore, ma il prototipo di Epcot è ancora oggi visitabile presso il Walt Disney World Resort di Orlando, in Florida.
Il caso di Epcot non è però l’unico di un prototipo pensato su carta e tradotto nella realtà odierna: altri progetti sono diventati spunto per edifici effettivamente costruiti. Questa fotografia presa da Wikipedia, ad esempio, mostra un design “retrofuturistico” adattato a un grattacielo di Shangai, in Cina:
In altri campi, la spinta futuristica servì anche a scoprire nuove soluzioni pronte per essere adottate, se non magari direttamente sul momento, magari in un futuro molto vicino. È il caso del settore automobilistico, ad esempio, che da quella sete di innovazione ottenne diverse idee applicabili ai modelli in arrivo.
In conclusione
Il retrofuturismo è dunque, in sintesi, il presente che recupera il futuro progettato nel passato. O, se si preferisce, la nostalgia verso una idea in qualche modo “mitizzata” e che non si è mai avverata. Così come succede in altri ambiti, come ad esempio quello musicale, nel quale il recupero di stili e suoni di altri decenni diventa funzionale per l’epoca in cui viviamo, anche nell’architettura o in altre forme d’arte si assiste al ritorno di istanze d’altri tempi. La differenza sostanziale, però, risiede nel fatto che il retrofuturismo va ad attingere da idee e progetti mai effettivamente realizzati, portandoli di fatto a compimento. In tal senso, si tratta un po’ di un unicum. E forse, magari, anche in un certo senso di una forma di delusione per come le cose sono effettivamente andate con l’evoluzione della tecnologia. In fondo, chi non vorrebbe possedere un piccolo aereo personale, organizzare gare in fondo al mare a cavallo di grandi pesci, vivere in città che non siano gravate dai tanti problemi delle metropoli moderne?
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